È il 1965, quando esce “The Nazi Seizure of Power. Experience of a Single German Town 1930-35” (uscito in Italia tre anni dopo per Einaudi, con il titolo “Come si diventa nazisti“).
L’autore è William Sheridan Allen, un professore della Buffalo University (NY) che, circa trent’anni dopo gli accadimenti di cui parla, si reca nella cittadina di Nordheim nello Hannover (Germania).
Qui, con il piglio e la minuziosità dello storico, raccoglie testimonianze, consulta giornali d’archivio e passa in rassegna tutti i documenti municipali disponibili, trovando un’enorme quantità di materiale rimasto pressoché indenne dalla guerra.
Il libro, come lo stesso Sheridan Allen premette, non vuole essere un microcosmo da elevare a paradigma del macrocosmo Germania.
La storia di Nordheim non è quindi la storia di un intero Paese.
Però i fatti descritti ci permettono di capire bene quali meccanismi economici, politici, psicologici e antropologici si sono attivati negli anni ’30, determinando l’ascesa del nazismo anche in cittadine apparentemente tranquille come quella descritta.
Con l’aiuto di un altro paio di libri (i cui riferimenti bibliografici potrete trovarli in fondo a questo articolo), cercherò di spiegarvi in maniera semplice il quadro della situazione sociale degli anni ’30, cosicché possiate farvi un’idea più precisa dei motivi per i quali il nazismo è entrato nella vita dei tedeschi e nella nostra.

L’eredità pesante del primo conflitto mondiale
L’11 novembre 1918 finisce la Prima Guerra Mondiale, che lascia dietro a sé una scia di sangue pesantissima, con i suoi 24 milioni di morti.
Un’intera generazione di giovani europei esce esacerbata dall’esperienza del conflitto: oltre alle vittime, infatti, non si devono dimenticare i 13 milioni di feriti e mutilati che ogni Stato dovrà in seguito sostenere socialmente di tasca propria, andando incontro ad indebitamenti che si protrarranno per decenni.
Dal punto di vista politico, il panorama europeo è profondamente modificato a discapito della monarchia: nel 1900 il mondo era dominio di immensi imperi governati da monarchi ereditari (ad eccezione della Francia). Nel 1920 ne restano pochissimi (tra cui la Gran Bretagna) e costantemente sotto la forte pressione di gruppi nazionalistici per la concessione di riforme.
Cadono così, uno dopo l’altro, gli Hohenzollern (Germania), gli Asburgo (Austria), i Romanov (Russia), i Manciù (Cina) e gli ottomani (Medioriente).
Il conflitto, inoltre, pone fine ad un lungo periodo di crescita e stabilità economica che aveva i suoi cardini nella cooperazione internazionale per la costruzione e la regolazione del mercato mondiale.
Come se non bastasse, l’inflazione e le tasse salgono in maniera vertiginosa.

Processo di urbanizzazione
Durante il corso del ventennio (1919-1939), si registra una netta flessione della forza lavoro nelle campagne a favore dell’industria. Parallelamente, assistiamo ad uno svuotamento delle campagne ed a un progressivo aumento del flusso migratorio verso le città. Lo sviluppo industriale caratterizza la crescita della ricchezza, aumenta la potenza militare e riduce le aree di arretratezza.
La convinzione è che la modernità possa rendere le società migliori.
Ma l’economica liberista porta ben presto i mugugni di quelle classi sociali che rimangono emarginate in questo processo: piccola nobiltà e contadini, quest’ultimi messi sotto pressione dall’arrivo di prodotti meno costosi da oltreoceano.
Anche una parte dell’intellighenzia europea si scaglia contro la modernizzazione e quel sogno tecnocratico del progresso guidato dalle macchine. Si rimprovera, infatti, che l’industria moderna abbia generato divisioni sociali e che la meccanizzazione abbia causato il logoramento tra datore di lavoro e operaio, facendo di ogni dipendente uno schiavo della catena di montaggio e del contasecondi, contribuendo alla grave perdita di competenze professionali e di dignità del lavoro in sé.
Il resto è merito di una grande abilità politica di Hitler e dei suoi stretti collaboratori, che sanno sfruttare le rigide condizioni imposte alla Germania dall’Europa (attraverso il Trattato di Versailles) come leva per infiammare l’umore del popolo.
Il Führer da piazze sempre più affollate richiama all’onore, allo spirito nazionalista.
Il Paese deve tornare ad alzare la testa, perché il comunismo è alle porte.
Così la gente diviene sempre più convinta che sia necessario un nuovo ordine sociale, un ordine che abbia a cuore la propria nazione e sia fautore di concordia.
Guarda caso, tutto ciò che rappresenta (apparentemente) il nazismo.

L’ascesa dei regimi
I movimenti fascisti godono del consenso sociale di un ampio ventaglio della popolazione; la percentuale più alta è rappresentata da contadini, manovalanza rurale, piccola borghesia, artigianato urbano e da una certa schiera di ben pensanti conservatori frustrati (metà dei 13 milioni di voti che portano Hitler al potere provengono dal mondo rurale).
In Europa, l’epoca del liberalismo si scioglie stritolata da quella che Mussolini definiva “la politica dell’azione”: il parlamentarismo deve lasciare il posto a un governo attivo e decisionista, in grado di rappresentare meglio l’intera nazione.
Nasce così nel 1920 il “totalitarismo”, termine coniato proprio in Italia per descrivere le ambizioni del partito fascista.
L’intera popolazione deve essere abbracciata dal sistema, che organizza la vita pubblica così come quella privata, fondendo interamente gli interessi del singolo con quelli dello Stato.
In pochi anni, i movimenti totalitari iniziano a farsi largo anche in Europa, sfoggiando una matrice comune: ognuno di loro è capeggiato da una forte personalità, dotata di carisma, a cui gli iscritti devono assoluta obbedienza. Chi non ne fa parte, è per definizione un nemico e merita di essere perseguitato. Ogni regime ha la propria struttura paramilitare, la sua ala giovanile, la sua organizzazione femminile e gode di una forza d’attrazione trasversale e interclassista, mai incontrata prima.

I veri intenti
Una volta al potere, le nuove autorità perfezionano le procedure del terrore moderno: messa al bando degli altri partiti, censura in tutti i settori della vita politica e culturale, divieto di espressione e di libera associazione, nonché promozione della repressione attraverso polizia, torture e campi di concentramento (in Italia, Mussolini si avvale dell’OVRA, mentre Hitler della Gestapo, delle SA e delle SS).
Gli oppositori politici del regime non possono fare appello e, nella maggior parte dei casi, non hanno nemmeno diritto ad un processo.
La gente inizia ad essere spaventata e si rende conto troppo tardi di quello che sta succedendo.
Tornando alla nostra Nordheim, ad esempio, Sheridan Allen spiega che la paura della Gestapo diventa virale fra i cittadini.
Nessuno si sente al sicuro da orecchie indiscrete.
Nelle birrerie non ci si lascia più andare a commenti che potrebbero essere interpretati come inappropriati o, addirittura, ostili al regime.
Le persone smettono di fidarsi perfino degli amici, dopo alcune segnalazioni infamanti alla polizia di stato (magari con la speranza di attirarsi la benevolenza dei nazisti).
Molti luoghi pubblici, come piazze e locali, si svuotano, preferendo la maggior sicurezza dei quattro muri di casa propria.
Ed ecco che il quadro si completa: la vittoria dell’individualismo garantisce (o quasi) il quieto vivere personale, ma toglie lentamente ogni dignità e lede irrimediabilmente la libertà di espressione, consentendo al regime il totale controllo delle masse.

Conclusioni
Trovare una soluzione univoca per spiegare l’ascesa di movimenti come quello nazista non è quindi possibile.
Sono intervenute una serie di concause riscontrabili nelle disuguaglianze sociali, nell’incapacità dei socialdemocratici di opporre al nazionalsocialismo tedesco una politica altrettanto persuasiva ed efficace e, soprattutto, in quella “mancata percezione” del cambiamento in atto, che portano la maggior parte dei tedeschi a sottovalutare il nazismo, salvo poi pagarne le tragiche conseguenze.
E ancora oggi, come allora, sebbene le condizioni storiche siano differenti e il livello di sviluppo economico sia più elevato, non dobbiamo dimenticare che i nemici della democrazia circolano numerosi.
Sono tra noi, ma possono esserlo anche dentro di noi, nella perenne dicotomia fra la necessità di sicurezza e il desiderio di libertà.
La distruzione di una comunità politica, così come la fine della democrazia, è sempre possibile.
Soltanto tenendo ben presente questo potremo, in qualche modo, preservarla da futuri attacchi ideologici.

©Luca Artioli (febbraio, 2017)

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