Eccola qua, signori e signore, ecco finalmente Ochún, la dea dell’amore che abita i fiumi e che ora, a Santiago De Cuba, nella balera del vecchio Emilio País, si fa donna vera e balla la rumba come nessun’altra su quest’isola.

La notte è di quelle sudate e malinconiche, di quelle che le stelle ci si stanca a contarle presto, perché gli occhi fanno male e il cielo è troppo grande. José rulla appena sulla pelle del tamburo e la musica inizia a occupare ogni spazio, si arrampica sui muri, si appiccica alle gambe; Martín lo segue stringendo la chitarra e Joaquín tiene il tempo con le spalle che snocciolano bisbigli di maracas. Lei, la dea dell’amore che abita i fiumi, comincia così a muoversi, i suoi muscoli e i suoi tendini si flettono dentro un ritmo che la natura fatica a distinguere, dentro qualcosa di simile a una tempesta senza vento, con la schiena e i fianchi rotondi tutti frementi, in un tremore di uragani.

Pochi secondi di danza solitaria e la balera del buon Emilio è tutta una polveriera fatta di cosce accaldate, passi svelti e sorrisi maliziosi, con le mogli che non vogliono essere da meno a quel bocciolo di mariposa lì sul palco e alla sua eleganza distruttrice, perché l’orgoglio per il proprio corpo, signori e signore, è ancora cosa seria a Santiago.

E allora ecco Consuelo, che di chili ne fa oltre cento, ma che il marito con quella scollatura lo sa ancora incatenare senza tanti né quanti o Celia, caviglia esile e bocca amor di ciliegia, che nel bel mezzo della pista sussurra al fresco sposino qualcosa nell’orecchio, una frase che sa di promessa birichina e di generose concessioni.

Insieme a tutti gli altri, se ne stanno lì, a seguire quella musica, dove sono le note a tener il passo di Alejandra e non viceversa. Lei è la dea Ochún. Lei è il peccato e la rivoluzione. Lei è l’elisir che fa mischiare il sangue e ballare con voglia, finché il mattino arriva presto. Quando poi le luci si spengono una ad una, il locale del vecchio Emilio si svuota nella fretta di un baleno.

È allora che il tempo smette per un attimo di essere tempo.

Dietro al mio pianoforte, nel trambusto dei compagni che rimettono gli strumenti nelle custodie, Alejandra dea dell’amore che abita i fiumi mi butta la solita occhiata e mi sorride. “Amore mio” vorrei dirle in un suicidio di coraggio.

Amore mio.

Ma poi taccio, perché l’anima è già persa su quelle labbra che sono la carezza interminabile della ore buie. Alejandra, oh Alejandra, dea farfalla e pupilla di velluto, che fai delle mie parole soltanto macerie senza suono, affonda nel mio cuore il tuo sorriso-coltello ancora una volta e ricordami, ricordami di quanto dolore serva in questa notte per sentirsi vivi al di là di ogni ragione.

Al di là di ogni speranza. 

(©Luca Artioli, 2009)