Dalla prefazione di Mario Fresa

“L’inventario dell’uomo solo inaugura un nuovo, inatteso tempo della poesia di Luca Artioli: giacché la luminosa accortezza, la temperata morbidezza, i pudichi turbamenti della sua precedente raccolta, Suture, cedono il passo, qui, a una sorta di indocile asprezza, a una severa violenza attraversata sempre da un irreparabile sentimento di amaro e insanabile scetticismo.

L’angolatura dello sguardo, infatti, declina, anzi precipita, nell’inquietudine di un disagio vistosamente reattivo, in cui si registra il dichiarato rifiuto di accogliere ogni eventuale forma di illusiva pacificazione risolutiva.

Il lettore, così, si trova immerso in un luogo di rovine e di interdizioni, di cadute e di sgretolamenti, di perdite e di crisi: un luogo estremo, in cui le azioni si trasformano in mancanze, la parola degrada a povero e inconcludente balbettio, e ogni promessa inciampa nella disillusione, e ogni acuto desiderio si polverizza e naufraga tra i gorghi nullificanti di una continua, inesorabile resa.

Il dramma di un io che è destinato alla lacerazione e allo sbriciolamento del proprio essere è decretato, qui, dall’impossibilità del permanere, anche solo per un istante, come annota lo stesso poeta, nell’«ortodossia della quiete», cioè nella rassicurante determinazione di un’idea centrale e ricompositiva, di una “fede” rivelatoria e riparatrice. Qui l’uomo appare inchiodato a una forma acuminata e irreparabile di incompiutezza e di dolore, nella quale ogni risultato si trasforma in fallimento, e ogni meta raggiunta si rivela uno smacco, una battuta recitata male (o recitata nell’insensibile spazio di un teatro abbandonato).

Nel viaggio narrato da Artioli si dispera di raggiungere una dimora finale di pace e di risarcimento, di ristoro o di ristabilimento: e la scrittura si mostra come il profondo risuonare di un’assenza, come il segnale inconfutabile di un oscuro naufragio.

Occorre chiarire, però, che la scrittura di Artioli non è fondata sull’idea di un coinvolgimento diretto (cioè psicologicamente «empatico») del poeta; ché il disperato nichilismo della «voce narrante» non registra il pensiero, né la personale posizione dell’autore. Questi si mostra, invece, come lucido e distante testimone-spettatore; e appunto in virtù di questa sua asciutta, distaccata visione, la poesia di Luca Artioli si configura come l’aprirsi vertiginoso di una rilevazione assoluta, che appare incisa nella suprema forma di un’oggettività preziosa e dura.” 

 

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Alcune poesie scelte dalla plaquette:

 

II
Nell’unico filo, la via si segue
per volontà e tormento,
sotto il calcagno abbiamo il sogno,
l’idea schiacciata della Morte
che ci inquieta e non fallisce.
Nomade l’uomo, conquistatore
sradicato e indomito, fa del mondo
la sua violenza. Intorno a sé,
brucia quello che non sa tenere,
la sua breve, cava, eternità.

 

IV
Nulla è più silenzio o meditare,
nulla è ortodossia della quiete:
siamo nel continuo, cronofago,
movimento che ci avvita su noi
stessi, nati invece per l’inerzia,
come creatura vegetali tese
alla propria radice, lontane
dal “bisogno” che sospinge
in superficie, per poi sottrarre
-ad ogni vita- in profondità.

 

XV
Consapevoli s’avanza, l’eternità
vera, come sciupato appuntamento.
Potevamo il divino e siamo uomini
soltanto uomini, ora, caduti nel tempo
-con il suo ripetuto travaglio di cellule-
ciascuno certo di sé, ciascuno
nella sua parte, in quella metafora
che riserva il proprio adattamento,
una sua preordinata testimonianza
chiamata Vivere, chiamata Storia.

Il libro è stato realizzato a tiratura limitata, su carta realizzata a mano Flora Camoscio e finemente rilegati con filo di rafia. All’interno potrete trovare una preziosa litografia dell’artista Bruno Conte.

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